di Chiara Anna Reccia
presidente di Azione Cattolica diocesana di Oria
e Domenico Facchini
presidente Unione Giuristi Cattolici Italiani – sezione di Oria
«Tutti coloro che predicano la Parola di Cristo sono voce, ma la voce passa. I predicatori muoiono. Giovanni Battista scompare, resta solo la Parola. La Parola rimane e questa è la grande consolazione per chi predica. La mia voce scomparirà, ma la mia parola, che è Cristo, resterà nei cuori che avranno voluto accoglierla» (Oscar Romero).
La sua gente lo aveva già capito da tempo. Vedeva in quel volto mite e benevolo, la personificazione dell’uomo di fede pronto a tutto per il bene dei suoi, un difensore strenuo, un padre sorridente e buono. Questa, in sintesi, la testimonianza di un uomo, di un pastore, schierato in prima persona al fianco di chi era povero e oppresso, in una realtà fortemente polarizzata, divisa tra pochi ricchi e molti poveri. Il 14 ottobre 2018 monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador per soli tre anni (dal 1977 al 1980), sale agli onori degli altari insieme a Giovanni Battista Montini, il Papa che lo aveva nominato vescovo nel 1970, rendendo così la giusta palma della santità al martire del regime salvadoregno. È il tardo pomeriggio del 24 marzo 1980 quando un sicario si intrufola nella cappella dell’ospedale, dove Romero stava celebrando, e gli spara dritto al cuore. Nei terribili anni che seguirono la sua morte, il ricordo del suo sacrificio riesce a dare un senso al dolore delle famiglie che hanno perso i figli nel conflitto. Il suo popolo lo proclama martire immediatamente e accorre a pregare sulla sua tomba nella cattedrale. Il martirio non avvenne solo al momento della sua morte, «fu un martirio-testimonianza, sofferenza anteriore, persecuzione anteriore, fino alla sua morte. Ma anche posteriore, perché una volta morto – io ero un giovane sacerdote e ne sono stato testimone – fu diffamato, calunniato, infangato, ossia il suo martirio continuò persino da parte dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato. Non parlo per sentito dire, ho ascoltato queste cose. Cioè, è bello vederlo anche così: come un uomo che continua a essere martire. Ebbene, credo che ora quasi nessuno osi più farlo. Dopo aver dato la sua vita, continuò a darla lasciandosi colpire da tutte quelle incomprensioni e calunnie. […] Solo Dio conosce le storie delle persone, e quante volte persone che hanno già dato la loro vita o che sono morte continuano a essere lapidate con la pietra più dura che esiste al mondo: la lingua» (Papa Francesco, Discorso al pellegrinaggio da El Salvador, 30 ottobre 2015).
Quella di Romero è certamente una figura luminosa. Una figura di pace, un testimone vero del Vangelo, una storia di cui è importante fare memoria… Perché… “Fare memoria di chi nella notte delle dittature e dei totalitarismi ha tenuto acceso la fiaccola della libertà e della pace. Fare memoria di chi non è stato alla finestra e non ha girato la faccia dall’altra parte”. Fare memoria illumina il nostro futuro presente! Quella di Oscar Romero è una storia straordinaria, non perché ha il carattere dell’eroismo ma molto più perché racconta di un vescovo che soffre e spera con il suo popolo, un uomo che ha il profumo del cielo perché non arretra di fronte alle minacce o alla paura della morte. Un cristiano che continua a testimoniare il Cristo perché diversamente non sarebbe tale. Così ci viene donato nel libro di Anselmo Palini “Oscar Romero – Ho udito il grido del mio popolo” (ed. AVE), presentato dall’Autore ad Avetrana presso l’oratorio “San Giorgio” lo scorso 28 marzo, a qualche giorno dalla ricorrenza dei 45 anni dalla barbara uccisione, su iniziativa dell’Azione Cattolica diocesana in collaborazione con l’Unità pastorale di Avetrana, con l’Unione Giuristi Cattolici Italiani – Diocesi di Oria e con il Presidio Libera di Manduria.
Stupisce la storia di quest’uomo e pastore perché per gran parte della sua vita non provò alcun interesse per la politica e le questioni sociali, fino a che l’evolversi della storia e la morte di un amico non lo costringono a scontrarsi con la realtà del tempo e a vivere la sfida di stare accanto agli emarginati, al popolo salvadoregno, che chiede giustizia. È una storia che ha tanto da insegnare nel nostro contesto storico, sociale ed ecclesiale. Recuperare questa testimonianza non può che essere un’opportunità per diventare, riprendendo un’espressione di don Tonino Bello, autentici “costruttori di Pace”. Un ulteriore invito a trasformare le nostre “ferite” in “feritoie”, da cui entra la luce o attraverso cui si può guardare oltre per essere contempl-attivi, cioè partire dalla contemplazione per poi fare sfociare l’impegno nell’azione. Un altro stimolo a essere segno profetico che esorta e incoraggia le coscienza a pensare globalmente e agire localmente (cfr. don Tonino Bello).